giovedì 1 aprile 2010

Cuore azzurro e Pavlocapitalismo


Questa mattina andavo al lavoro in scooter. Sul mio lato destro ho visto scorrere un cartello al bordo della strada. Il manifesto diceva: "Cuore Azzurro. L'amore vince sempre sull'odio e sull'invidia". Esultanza per i risultati elettorali. Si, ma che cazzo significa a livello politico questa frase? Nulla. E' un'idiozia. Ma un'idiozia che ha convinto e mosso al voto la metà di una nazione.
Allora ho pensato a una cosa che avevo scritto nel dicembre del 2007 nella mailing list di Rekombinant, uno strumento di discussione politico-filosofica eccellente, che ha chiuso lo scorso anno.

Questa cosa che avevo scritto si chiamava "Pavlocapitalismo e devoluzione". Sono andato a rileggermela. E ho ripensato al cuore azzurro.
Ve la ripropongo (sperando che non sia troppo astrusa):

Pavlocapitalismo e devoluzione

Dopo quarant'anni almeno di evoluzione del semiocapitalismo, l'impressione è
che adesso stia maturando il passo successivo. È oggi un capitale che gioca con
il consumatore come lo scienziato Pavlov, che grazie a esperimenti basati sulla
routine, aveva abituato il suo cane ad avere fame non appena sentiva la
campanella che annunciava la pappa. Una questione di azione e reazione, di
stimoli e impulsi.
Ecco, sembra che il senso non sia più una merce pregiata per il capitalismo.
Alla gente non frega quasi più niente. Quasi nessuno legge più un giornale o
accende la tv per dare una struttura di significato alla società in cui vive.
I frammenti di significato (forse sarebbe più giusto chiamarli cocci) in cui
siamo immersi, si sono moltiplicati e ristretti così tanto, da essere diventati
semplici pixel luminosi.
Il pavlocapitalismo non vende più senso, perché la gente vi ha rinunciato, così
come ha rinunciato al sentimento. Si vendono sensazioni, seguendo un percorso
inclinato che dalle sensazioni scivola verso le pulsioni, per finire in
impulsi. Pixel, appunto. Il consumatore oggi vuole impulsi, si accontenta di
questo. I programmi tv sono sempre più brevi e forti, non parlano quasi d'altro
che di sesso, potere, successo e violenza. Le canzoni si accorciano. Un signore
che butta la vernice rossa nella fontana di Trevi viene lodato anche da persone
insospettabili, perché il rosso con la fontana “ci sta bene”, e per
nessun'altro motivo che non sia estetico. I rapporti interpersonali vengono
sempre più delegati a supersonici messaggi scritti scambiati su internet. È
l'epoca degli aforismi, non dei libri. Non a caso piacciono molto i libri che
sono una accozzaglia di aforismi messi insieme, in certi casi anche di pessima
qualità.
A fare le spese maggiori degli effetti del pavlocapitalismo sono i più piccoli.
I bambini, proprio nell'età in cui sentono la necessità della sistemazione del
reale in una struttura di senso, si trovano davanti impulsi e poco più. Così
come le generazioni precedenti hanno avuto l'occasione di formarsi nei primi
anni di vita attraverso una griglia più o meno oppressiva di senso, le ultime
generazioni si vedono costrette ad addentrarsi nell'adolescenza senza punti di
riferimento cognitivi con una geometria precisa. Probabilmente i figli del
pavlocapistalismo sono iniziati già con la generazione che oggi vive
l'adolescenza. Potrebbe essere un'abbozzo di spiegazione riguardo l'incapacità
di decifrazione, non solo da parte del mondo adulto, ma anche da parte delle
generazioni immediatamente precedenti. Forse la caduta del muro di Berlino è
stata molto meno e allo stesso tempo molto di più della fine delle ideologia.
La fine del mondo in blocchi è stato solo parte di un processo di disgregazione
di una ontologia del senso, di cui gli imperi contrapposti erano gli ultimi
baluardi di un mondo retto dall'ideologia. E non è un caso, forse, che in
quegli anni si sia confuso la morte delle ideologia con la morte del senso,
dato che proprio la stessa ideologia è il sistema di senso più strutturato che
l'uomo abbia a disposizione. Non è fuori discussione, dunque l'ipotesi che
l'avanzare del processo devolutivo che viviamo abbia a che fare con la
formazione/nonformazione delle generazioni nate a cavallo tra anni ottanta e
novanta.

Il pavlocapitalismo, che riduce il rapporto tra consumatore e capitale a uno
stimolo offerto e consumato all'istante, infatti, produce effetti ancora più
profondi nell'antropologia sociale odierna, a causa dell'odierna tendenza
“devolutiva”. E quando faccio riferimento alla devoluzione, non intendo la
regressione allo stato brado e animalesco. Intendo la progressiva perdita della
caratteristica forse più importante, tra quelle che differenziano l'uomo dalla
bestia: il senso etico, la capacità di distinguere tra bene e male, e
soprattutto di scegliere il bene.
Ciò che vi avvicina sempre di più agli animali non sta nella forma, negli stili
di vita, che possono essere anche raffinati e sofisticati senza sfuggire alla
devoluzione. Ci avvicina il rifiuto sempre più diffuso di sopportare
conseguenze sgradevoli (impulsi negativi) se scegliamo il bene. Non è una
questione di senso, non c'è una particolare difficoltà nel distinguere cosa è
bene e cosa è male (stiamo parlando di bene e male in senso lato e soprattutto
in campo sociale). Semplicemente, scegliere l'uno o l'altro è indifferente,
rispetto al vantaggio immediato che se ne può ottenere.
Se quanto detto è perlomeno verosimile, se il pavlocapitalismo esiste, bisogna
chiedersi in che modo invertire il piano inclinato. In che modo, secondo quali
percorsi, tornare dagli impulsi, alle pulsioni, alle sensazioni, e infine al
sentimento.
Ad esempio, si potrebbe provare uscendo a fare una passeggiata, leggendo un
buon libro, facendo una gita con vecchi amici e nuove conoscenze.

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