venerdì 13 marzo 2009

Le ripartenze



Non mi abituerò mai alle partenze.
Ci sono troppe cose che mi pesano, eppure sono anni che assisto o sono protagonista di molteplici partenze (struggenti, rabbiose, divertite, emozionate).
La notizia mi ha raggiunto proprio nel pieno di un convegno internazionale di cazzate (che mi vedeva, ça va sans dire, tra i relatori di punta) all’ombra della torre mangiona.
Dunque, un’amica parte dalla capitale in direzione nord, con una doppia indicazione sentimental-lavorativa. Nulla da eccepire nel merito, ovviamente. Né eccepisco qualcosa sulla bontà delle melanzane a fungitiello preparate dalla sua amica e compagna di casa per la festa d’addio. Anzi.
Ma una tristezza latente si è impossessata di me donandomi però uno sprazzo di lucidità. Mi sono sentito come il personaggio interpretato da Abatantuono in “Nirvana” di Salvatores, il quale era condannato a vivere in un video-gioco e quindi a ripetere inevitabilmente le stesse situazioni, le medesime sensazioni fino alla fine dei tempi.
Quante volte mi sono sentito così? Inutile insistere.
Non è stato d’aiuto constatare quanto queste sensazioni fossero condivise dagli altri presenti, quasi non ci fosse rimedio per questo spaesamento, vaccino per questa malattia.
Siamo (intendo dire noi emigranti, qualsiasi questo termine significhi) condannati a rivivere il trauma del distacco: dalle persone, dalle città, dalle lingue e dai palati. Siamo condannati a mitizzare quei luoghi e quelle persone per poi rimanerne inevitabilmente delusi.
Come il povero Anguilla de “La luna e i falò” o il sottoscritto Bradiponevrotico.

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